Il risultato del referendum ha assunto un altissimo valore ed interesse politico e sociale e per questo non può assolutamente essere ignorato o catalogato tra gli ordinari accadimenti elettorali. L’esito sembra essere, infatti, la codifica di un’accurata indagine sociale. L’eterogeneità delle modifiche, che ha reso difficile elaborare un giudizio univoco sul testo, assieme al tipo di campagna elettorale condotta sono stati elementi determinanti nel fenomeno di polarizzazione o meglio di stratificazione sociale del voto. La modifica di 44 articoli attraverso un unico quesito è stata una formula pensata per ricercare un consenso di tipo plebiscitario, quando ancora la popolarità del presidente Renzi sembrava inscalfibile. Questa impostazione ha spinto l’elettorato ad esprimersi non soltanto sul contenuto della riforma ma anche e soprattutto contro una visione più ampia, contro un’offerta politica generale e, in ultima istanza, contro una narrazione eccessivamente ottimistica, contrastante con le reali condizioni di vita delle persone. La riforma Renzi-Boschi aderiva perfettamente allo spirito e all’egemonia del tempo: interventismo contro mediazione, velocità contro lungaggine, efficienza contro spreco, risolutezza contro poltrone. Eppure il risultato ha ampiamente punito questa impostazione. Perché? Si può facilmente affermare che l’esito del referendum abbia svolto il grande compito di dimostrare che la politica non è “narrare” qualcosa che incarni in modo generico i sentimenti più diffusi, ma è innanzitutto espressione di interessi in conflitto. Chi non ha voluto ignorare il risultato ha scoperto che le fratture politiche si articolano ancora su elementi fortemente ancorati alla struttura sociale, come centro e periferie, piccoli e grandi agglomerati urbani, possessori di un reddito stabile e disoccupati, giovani e anziani, sud e nord. È l’ennesima prova, se ancora ce ne fosse bisogno, che la proposta politica non si costruisce scomponendo e ricomponendo il quadro politico, ma nella società, sulle vertenze, selezionando e rappresentando interessi e bisogni. Focalizziamo ora l’attenzione su un particolare binomio, un “combinato disposto” sociale, che dall’analisi del voto ha risultato manifestare un forte rifiuto, espressione di un profondo disagio: parliamo di giovani e Mezzogiorno. Sul voto al Sud ne abbiamo sentite tante, prima e dopo la campagna elettorale, da chi sosteneva che il No avrebbe avuto la benedizione della criminalità organizzata a chi attribuiva il largo scarto nei sondaggi prima e nel risultato poi ad una componente genetica tipica della mentalità del Sud da sempre ostile ad ogni cambiamento. Partiamo da un dato, relativo alla provincia di Cosenza, che è la realtà a me più vicina. Ebbene in provincia di Cosenza, secondo l’Istat, il tasso di disoccupazione dei giovani in età compresa tra i 15 e i 24 anni è pari al 71,3%, contro una media nazionale del 40,3%. Sono numeri, ma possono iniziare a darci un’idea delle proporzioni del malessere che attraversa i giovani a queste latitudini. Nel suo complesso sono rintracciabili due principali tipologie di disagio giovanile: quello dei giovani in possesso di molte competenze ed elevati titoli di studio, e quello dei giovani scarsamente formati, che hanno concluso un percorso di istruzione minimo e hanno acquisito un esiguo bagaglio di competenze. Per i primi il disagio è assimilabile alla frustrazione determinata dal disallineamento tra le competenze acquisite, magari con sforzi e sacrifici anche economici, e la disponibilità a metterle in pratica, ossia la capacità del territorio in cui vivono di assorbire le conoscenze conseguite. Per gli altri si innescano veri e propri fenomeni di esclusione sociale. Ragazzi e ragazze che, senza più l’ausilio di strumenti in grado di decifrare la società, cioè senza una delle funzioni principali esercitata in passato dai partiti radicati e di massa, riversano in uno stato catatonico, solo marginalmente lambiti dal discorso politico. Il denominatore comune è a mio avviso composto da due termini: l’incapacità di compiere la transizione da giovane ad adulto, ossia di trovare un minimo di dignità lavorativa e di indipendenza, e il forte e confuso senso di ingiustizia. Da anni ormai il Mezzogiorno è scomparso dall’agenda politica del Paese e l’opinione comune tende a considerare gli anni del meridionalismo come uno dei tanti fallimenti della prima Repubblica, ignorando i risultati prodotti da grandi stagioni di sviluppo e convergenza, nelle quali attorno alla questione meridionale ruotava gran parte della politica nazionale. Oggi, con un tessuto produttivo impoverito e sfibrato, le politiche per il lavoro che incidono soltanto dal lato dell’offerta risultano nel migliore dei casi inefficaci e nel peggiore anche dannose. È il caso di Garanzia Giovani, o del Jobs Act che, in maniera diversa, agiscono, almeno in teoria, per fare incontrare domanda e offerta modificando le regole d’ingaggio. L’effetto è che, al Sud, quel poco lavoro esistente viene sostituito da lavoro meno pagato e protetto contribuendo ad un ulteriore impoverimento e quindi all’alimentazione della spirale recessiva. Sul versante europeo, le politiche comunitarie hanno progressivamente esaurito la funzione per cui vennero concepite. L’azione supplementare dei fondi comunitari è diventata, nel Mezzogiorno, la principale fonte di finanziamento. È accaduto, cioè, che strumenti pensati come supplemento siano divenuti sostitutivi della spesa pubblica interna (principalmente di quella in conto capitale) perdendo dunque la funzione aggiuntiva, ossia quella necessaria alla convergenza tra le aree del Paese. Il risultato è che la grande maggioranza dell’impresa al sud è caratterizzata da piccolissime attività che nascono e muoiono nel tentativo di intercettare questo bando o quel finanziamento. Ne risulta un complesso produttivo debolissimo e senza un definito orientamento di sviluppo. Difronte a questo scenario c’è chi pensa di fare del Sud una sorta di Sharm el-Sheikh italiana, con hotel extralusso e viste mozzafiato. In realtà, questa idea di turismo è del tutto inadeguata a garantire uno sviluppo adeguatamente distribuito. Se proprio di competizione dobbiamo parlare è assolutamente necessario che questa venga trainata da produzioni ad alto valore aggiunto, con adeguata intensità di lavoro e un buon sistema di salari e tutele. L’alternativa (come in parte già avviene) è quella di competere con quei paesi che sfruttano manodopera a basso costo. Dare risposte, permettere di identificare una prospettiva di crescita, di sviluppo è indispensabile anche per assicurare la presenza e il valore delle risorse umane. Da qualche anno al Sud il numero delle morti supera quello delle nascite. In un contesto simile, trainato da una spaventosa emigrazione giovanile, l’impoverimento non assume solo tratti economici e incide pesantemente sulla formazione e il ricambio delle classi dirigenti, quasi mai all’altezza dei problemi da affrontare. Il ruolo residuale di una politica dagli attrezzi spuntati da un lato, la crisi di ogni tipo di intermediazione, politica, sociale, culturale dall’altro hanno generato un mix esplosivo di sfiducia e rassegnazione. Questo, per ritornare all’esito del voto, non si traduce sempre in astensione, ma può anche produrre o accelerare fenomeni di polarizzazione e stratificazione sociale, ancora più favoriti nelle decisioni di tipo booleano si/no, vero/falso. Elaborare una formula da applicare come una ricetta risulterebbe pretestuoso e certamente inadatto ad una realtà mutevole e complessa. Ma a mio avviso dovremmo ripartire da alcuni punti: un sistema elettorale fortemente proporzionale per razionalizzare il sistema dei partiti, differenziare l’offerta politica e per far si che i conflitti presenti nella società non si ingrossino fino ad esplodere ma trovino sbocco e organizzazione sulla via della rappresentanza; sottrarre a forze conservatrici e reazionarie gli argomenti della giustizia, dell’etica, della corruzione e delle forme di protezione sociale. Senza ledere i principi del garantismo o dell’universalismo è necessario che la sinistra si riappropri di questi temi, percepiti come prioritari da tutto il corpo elettorale; in ultimo sarebbe necessario approcciarsi al lavoro non limitandosi a dire che il mondo è cambiato. L’impostazione per cui il lavoro sia un assetto predeterminato dai tempi e il mercato del lavoro un’entità assestante, con regole già scritte per cui la politica deve occuparsi soltanto di smussarne gli spigoli alimenta la sfiducia e l’impressione che la politica sia uno strumento poco adatto a cambiare lo stato delle cose. Invece il terreno della contesa sta proprio qui, nell’intendere il lavoro come veicolo di trasformazione e la politica come il più alto strumento di redistribuzione del potere.
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