Giacomo Matteotti: la solitudine di un no alla guerra.
Lorenzo Fedeli
Mentre in Europa torna a udirsi una lugubre eco bellicista, l’eredità pacifista di Giacomo Matteotti ci richiama all’impegno contro la guerra come inderogabile dovere morale e politico, dovere tanto più faticoso da adempiere quanto più seducenti e vocianti, oggi come nel 1914-’15, sono le sirene del nazionalismo. Così Piero Gobetti, che seguirà la sorte di Matteotti nel martirio, ne ricorda l’impegno contro la guerra: “conviene mettere a confronto l’esempio di Matteotti pacifista con la condotta degli uomini tipici del pacifismo italiano, pavidi e servili per non essere presi di mira, nascosti e silenziosi nei comandi o negli impeghi, emuli dei nazionalisti nel rifugiarsi nei bassi servizi. Matteotti non disertava, non si nascondeva, accettava la logica del suo sovversivismo, le conseguenze dell’eresia e dell’impopolarità: era, contro la guerra, un combattente generoso”.
Durissimi sono gli articoli e gli interventi di Giacomo Matteotti nel Consiglio provinciale di Rovigo. Benché osteggiato e criticato anche all’interno del suo partito, Matteotti non abbandona mai le proprie posizioni contro l’intervento dell’Italia nel primo conflitto mondiale, non teme la solitudine. “Matteotti parlò contro la guerra […]. Ripeté il suo discorso, anche quando non c’era più pacifista che parlasse […]. Egli rimane come l’uomo che sapeva dare l’esempio”.
La sua visione socialista del mondo non ammette che della guerra si faccia una questione di patrie, che emerga una legittimazione morale e politica del conflitto e delle sue atrocità contro le classi lavoratrici. La classe, per Matteotti, non può essere superata e posta in secondo piano, nemmeno dalla patria. Colpiscono a tale proposito alcune sue considerazioni sul rapporto tra patria e classe, tratte da un suo articolo su “La lotta”: “Noi non neghiamo l’esistenza della patria, ma essa non è la nostra idealità; un’altra e più alta assai è la nostra aspirazione. E quando a paladini della patria si ergono i clerico moderati, i nazionalisti, i militaristi, cioè tutti coloro che necessariamente si contrappongono all’idealità socialista, e si servono anzi a tale scopo dello straccetto patriottico – allora noi insorgiamo anche contro la patria”.
In una lettera alla compagna, pochi mesi dopo lo scoppio della guerra, Matteotti esprime tutta la sua inquietudine per il destino cui l’Europa si avvicina e per la presenza di dissensi e correnti interventiste all’interno dello stesso partito socialista. “Il pensiero di coloro che stanno uccidendosi è terribile; e mi par giusta l’insurrezione se si volesse domani con assai poca lealtà lanciarci in una guerra contro l’Austria. Ma tira il vento di piccole viltà, anche nel mio partito”. Non sono i contrasti interni al partito, tuttavia, che pur andranno inasprendosi nel corso dei mesi, a mutare le convinzioni di Matteotti. Mentre impazziscono le bussole del socialismo europeo, vittima della propaganda nazionalista, l’incontro con la povertà delle masse contadine lascia Matteotti saldo nella sua navigazione. La bussola del suo internazionalismo continua a mostrare lo zenit dell’emancipazione del lavoro e della liberazione dell’uomo.
Diverse sono le occasioni in cui la sua posizione di neutralità assoluta viene difesa con vigore e singolare abilità oratoria. Come ammonisce in uno dei suoi interventi nel Consiglio provinciale di Rovigo. “Noi tendiamo -proclama nel 1914- esclusivamente e con tutte le nostre forze al bene del proletariato, e perciò non vogliamo assolutamente la guerra, vogliamo la neutralità. […] E la neutralità assoluta, la neutralità a qualunque costo, il partito socialista ufficiale saprà imporla”.
Nell’opposizione di Matteotti alla guerra emerge pienamente come il suo progetto neutralista sia tutt’altro che utopico o irenico. Come espone molto chiaramente Daniele Lugli, Matteotti “usa tutti gli strumenti che il diritto consente (scritti, propaganda e azioni); si oppone a ogni sua violazione, a ogni restrizione della possibilità di manifestazione anche in tempo di guerra; trova il modo di non rinunciarvi anche di fronte ai divieti. Per evitare l’intervento italiano nella guerra mondiale giungerà a proporre l’insurrezione. Vi è una progressività dei mezzi impiegati e proposti che anche pensiero e prassi della non violenza raccomandano”.
L’azione di Matteotti, dunque, rimane sempre legata a un rigoroso pragmatismo giuridico e politico. “Aveva sempre in mente -scrive Gobetti- delle conclusioni, non dei passaggi oratori o degli artifici d’assemblea […] il suo socialismo fu sempre un socialismo applicato” . È lo stesso Matteotti a riproporre la propria posizione contro le accuse di astrattismo e di idealismo, sostenendo ancora una volta la possibilità di una concreta azione rivoluzionaria come extrema ratio in opposizione alla guerra.
“È permesso indicare al nostro partito il dovere di opporsi con tutte le armi possibili all’intervento, senza confondersi né con i miracolisti anarcoidi, né con i dogmatici che segnano sempre il passo sullo stesso terreno? […] Da buon riformista io non ho mai negato le possibilità e necessità rivoluzionarie. Non già quelle che dovrebbero di punto in bianco sostituire […] il mondo dei buoni a quello dei cattivi; ma quelle certamente che ci fanno evitare un maggiore male. Così ieri per ottenere le libertà statuarie. Così domani contro il militarismo”.
Non traggano in inganno gli accenti infuocati della polemica di Matteotti. Sono da escludere, infatti, interpretazioni del suo pensiero che indulgano al mito sorelliano della violenza rivoluzionaria. Matteotti rimane sempre immune dalla tentazione della “volontà creatrice”, che animò, fra la fine del XIX secolo e l’inizio del seguente, non solo le destre nazionaliste, ma anche tante esperienze del socialismo europeo. Le “forze dell’irrazionale”, che si scatenano nella grande guerra dopo aver covato a lungo nella cultura europea, trovano in Matteotti un avversario fermo e sdegnoso.
Ancora una volta interviene limpidamente Daniele Lugli: “Non vi è però in Matteotti alcuna indulgenza nei confronti della violenza come strumento di azione politica. Vi è la consapevolezza che una strenua, radicale opposizione alla guerra può avere costi rilevati anche in termini di vite umane, per la prevedibile azione repressiva del governo, in ogni caso di gran lunga inferiori a quelli che la guerra produce”.
Nel 1915 l’Italia entra in guerra e in un suo articolo su “La Lotta” sono riversati tutto il turbamento e l’amarezza per la debolezza dimostrata dal movimento socialista nel condurre la mobilitazione contro la guerra. Ai suoi occhi appare un proletariato ormai impotente, reso cieco dalla propaganda nazionalista e interventista: il bellicismo di tanta cultura italiana e europea ha impregnato parte importante della coscienza di classe del proletariato internazionale.
“Doveva finire così. Cioè doveva cominciare così: la povera bestia doveva andare al mattatoio gridando gioiosa […]. I cultori dell’ordine hanno in questi giorni esaltata la piazza […]. I professori in palandrana hanno esaltato il monello che rompeva le vetrine. Il teppista diventa eroe […]. Troppo debole è stato il proletariato italiano […]. Prepariamoci ormai a veder dilagare la menzogna; prepariamoci a leggere vittorie sopra vittorie; i socialisti sotto bavaglio della censura e alla mercé d’ogni revolver di birro non esiteranno più […] Ogni borgo celerà al borgo vicino l’ospedale doloroso che ha raccolto dentro le mura al posto delle scuole […]. Orsù, lavoratori, che fare? Levatevi il cappello, passa la patria, e ormai più non ci sono socialisti; passa la rovina, passa la guerra, e voi date ancora la vostra carne martoriata”.
“I cultori dell’ordine…”: quanto è attuale questo passaggio di Matteotti! Quante volte lo abbiamo ritrovato nella storia del nostro paese: dal fascismo ai più recenti populismi. La piazza viene sempre blandita, eccitata, pur di inibire ogni potenzialità democratica che il movimento dei lavoratori intende sviluppare. I cultori dell’ordine, che esaltano la piazza, richiamano la categoria gramsciana del “sovversivismo dall’alto”, sono un capitolo triste ma essenziale purtroppo dell’autobiografia di una nazione vittima di rivoluzioni ora tradite, ora passive.
Rimasto pressoché isolato nel proprio partito, Matteotti, nonostante l’ingresso dell’Italia in guerra, non abbandona mai le proprie convinzioni, persevera nella sua opposizione al militarismo. Nel 1916 nel Consiglio provinciale di Rovigo stigmatizza veementemente il clima di guerra che pervade il Paese e ripropone la propria visione sul conflitto: “Ho detto loro quel che avevo nell’animo, contro la barbarie e l’inciviltà della guerra; è stato uno scandalo.
Così Matteotti viene denunciato e condannato per disfattismo e sedizione. Inizialmente tenuto in custodia nel Veronese, è poi trasferito in Sicilia fino al 1919. La sua intransigenza diviene oggetto di persecuzione giudiziaria. Il nazionalismo imperante non può tollerare una voce libera e coerente contro la guerra. Troppo alto è il rischio che le parole di Matteotti possano saldare le masse contadine e il proletariato industriale in una iniziativa contro la guerra.
Dal suo “esilio” in Sicilia, indirizza una lettera alla compagna che conferma l’incompatibilità fra il suo sentire e il clima diffuso nel Paese. Raccontando del giuramento dei soldati al re e alla patria, puntualizza con forza: “Infatti a tutti i costi io non avrei giurato: possono pretendere da me un contegno esteriore, ma nemmeno l’ultimo lembo del mio pensiero e della mia coscienza”.
Matteotti rifiuta di accettare le ragioni della condanna ed esclude ogni possibile compromesso sulle proprie idee. “Né esitazioni, né ripiegamenti, anche se potessero valere all’assoluzione, precisa e decisa riaffermazione dei nostri principii e dei nostri ideali. Unica tesi difensiva il mio diritto a dire e a fare quello che ho detto e quello che ho fatto”. A distanza di un anno dalla sentenza di primo grado si vede respingere il ricorso dal tribunale d’appello di Rovigo. Qualche mese più avanti, tuttavia, ottiene ragione in Cassazione. La sentenza riporta con precisione le parole del politico socialista, ma ammonisce come “non si può ravvisare il reato di grida sediziose, di cui all’art. 3 della legge sulla pubblica sicurezza”.
Si riportano le considerazioni salienti della sentenza:
“Senza dubbio questa libertà del voto motivato non importa licenza di violare le legge e gli altrui diritti, d’ingiuriare, diffamare, oltraggiare o commettere altri fatti che la legge penale prevede espressamente come reati; pure, se alcuna di queste violazioni di leggi avvenga, chi presiede l’adunanza, in virtù del potere discrezionale attribuitogli dalla legge, può togliere la parola al consigliere che non rimane ne’ limiti del suo diritto e del suo dovere; può ordinare non siano inserite nel verbale dell’adunanza le parole sconvenienti; può sospendere o sciogliere l’adunanza. Ma a chi non intende quali sono le esigenze supreme della Patria e i doveri di ogni cittadino, di ogni comune e di ogni provincia in momenti eccezionali, nei quali è in pericolo l’integrità della Patria, le libertà e il diritto, non si può, né l’autorità giudiziaria deve fare intendere queste esigenze, applicando pene per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge od applicando disposizioni di legge che quel fatto non prevedono come reato; perché anche in tempo di guerra la giustizia deve essere attuata conformemente alla legge ed in armonia coi principi fondamentali del nostro diritto pubblico. Per questi motivi, cassa senza rinvio”.
C’erano ancora giudici a Roma.
Terminato il conflitto, non sono certo scomparsi i germi del nazionalismo e dell’autoritarismo. Il movimento socialista non può cedere alla retorica dominante. Il proletariato italiano deve recuperare tempestivamente una propria visione strategica del tutto indipendente da quella delle borghesie che hanno portato il mondo alla guerra.
La polemica sul “milite ignoto” è l’occasione per Matteotti per indicare il percorso da seguire. Come scrive Caretti, Matteotti “per evitare che i socialisti si trovino coinvolti in una esaltazione nazionalistica della guerra, consiglia di opporre alla altrui interpretazione del ‘milite ignoto’ quale eroe guerriero quella del ‘milite ignoto’ quale vittima innocente della barbarie bellica alla stessa stregua dei molti socialisti uccisi, proprio in quei giorni, dalla violenza fascista”.
È già ben chiaro come dai postumi del nazionalismo, che ha ubriacato l’Europa già dalla fine del XIX secolo, si definiscano i tratti della deriva fascista. La retorica bellicista sostiene lo squadrismo fascista e va rapidamente legittimando la costruzione della dittatura di Benito Mussolini.
“Pensavo anche se noi dovevamo lasciar passare il giorno del milite ignoto senza far nulla, lasciando altrui la brutta ipoteca bellicosa su un simbolo così sentimentale. Noi avremmo potuto richiamarci ad esso come a colui che morì per la patria libera e per un mondo senza guerre. […] Penserei di riunire il ricordo del milite ignoto anche a quello di tutti nostri morti ignobilmente assassinati in questi giorni”.
Emerge chiaramente il rifiuto fermo tanto della guerra quanto di una sterile polemica insensibile a riconoscere i sacrifici delle masse popolari durante il conflitto. Il milite ignoto del popolo respinge le provocazioni dei nazionalisti, ma cerca di impedire anche che i socialisti si facciano nemici gratis fra gli ex interventisti, come aveva temuto Antonio Gramsci. La proposta di Matteotti rivela il suo irrinunciabile proposito di fare del movimento dei lavoratori una vera e propria classe dirigente, che assume su di sé i drammi della storia, per dare alla storia stessa, però, un corso diverso da quello imposto dalle borghesie.
La preziosa lezione di Matteotti obiettore è oggi più che mai attuale, un invito a esaminare la situazione odierna con spirito critico, a non attenersi supinamente a correnti di moda, a vedere lontano. Nelle ragioni che l’Assemblea costituente ha tratto dalle tragedie della guerra e dei fascismi risuona l’eco di Matteotti, che da testimonianza storica si fa pedagogia civile e dà vita a un patriottismo della Costituzione, risorsa indispensabile di ogni democrazia. Come ha scritto Sandro Pertini, “Giacomo Matteotti è ancora, dunque, in mezzo a noi, con la freschezza attuale dei nostri pensieri: un martire d’avanguardia nella lotta democratica per l’affermazione della libertà e della giustizia nell’Italia, nell’Europa e nel mondo”.
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